In breve:
Incentivi per le funzioni tecniche: gli ultimi approdi della giurisprudenza e della prassi
L’erogazione degli incentivi tecnici ai propri dipendenti ha sempre rappresentato un nodo problematico per le amministrazioni aggiudicatrici, tenuto anche conto dei profili di responsabilità amministrativa nel caso di erogazione di incentivi non dovuti.
In realtà, se ben utilizzato, l’istituto consentirebbe un forte risparmio di spesa per le Pubbliche amministrazioni, ottenuto dalla valorizzazione delle professionalità interne all’amministrazione e dalla minore necessità di ricorrere a professionisti esterni.
Tale istituto era già previsto dal precedente Codice appalti (D.lgs. n. 50/2016) e, segnatamente, era disciplinato all'art. 113, che oggi viene riprodotto dal nuovo Codice (D.lgs. n. 36/2023)all’art. 45.
In particolare, alla luce del nuovo Codice appalti, le risorse necessarie per remunerare le attività tecniche sono poste a carico degli stanziamenti previsti per ciascuna procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture.
Ciò premesso, occorre precisare che per funzioni tecniche si intendono tutte le specifiche funzioni svolte dai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici e consistenti nell’ attività di RUP, direzione dei lavori, direzione dell’esecuzione, programmazione della spesa in relazione agli investimenti, valutazione preventiva dei progetti, ecc.(cfr. allegato I.10 del d.lgs. n. 36/2023 e, in precedenza, art. 113, co. 2, d.lgs.n. 50/2016).
Inoltre, ai fini della corretta applicazione della disciplina in materia di incentivi per le funzioni tecniche, le amministrazioni aggiudicatrici devono procedere alla costituzione di un fondo al quale destinare le risorse finanziarie che, successivamente, saranno ripartite tra il R.U.P. e i soggetti che svolgono funzioni tecniche nonché tra i loro collaboratori.
Ebbene, mentre il vecchio Codice appalti era chiaro nel prevedere la costituzione del suddetto fondo da parte delle amministrazioni aggiudicatrici (cfr. art. 113, co. 2 e 3, d.lgs. n. 50/2016), il nuovo Codice, invece, fa sorgere dei dubbi, dal momento che non vi è alcun espresso riferimento alla citata costituzione del fondo.
Da qui l’intervento chiarificatore del MEF, il quale, con nota del 12 settembre 2023, ha chiarito che le risorse per gli incentivi delle funzioni tecniche sono da intendersi incluse nel fondo per le risorse decentrate.
Ad avviso della Ragioneria dello Stato, la citata soluzione si ricava dal combinato disposto:
- dell’art.2, co. 3, terzo periodo del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 79, co. 2, lett. a)del CCNL del 16 novembre 2022, secondo cui “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi”
- dell’art.67, co. 3, lett. c) del CCNL delle Funzioni locali del 22 maggio 2018, secondo cui all’alimentazione del fondo risorse decentrate concorrono anche “le risorse derivanti da disposizioni di legge che prevedano specifici trattamenti economici in favore del personale, da utilizzarsi secondo quanto previsto dalle medesime disposizioni di legge”.
Da qui la conclusione della Ragioneria dello Stato, secondo cui gli incentivi per le funzioni tecniche, pur non rientrando nelle materie oggetto di contrattazione integrativa, devono comunque ritenersi compresi nel fondo delle risorse decentrate.
Questo è quanto chiarito dalla prassi con riferimento al fondo per le risorse finanziarie.
Passando ora ai contributi interpretativi forniti dalla giurisprudenza, si segnalano due pronunce particolarmente rilevanti, un’ordinanza della Cassazione Civile (n. 25696 del4.9.2023) e una deliberazione della Corte dei Conti, Sezione di controllo della Lombardia, in funzione consultiva.
La vicenda esaminata dalla Cassazione riguardava lo svolgimento di incarichi di progettazione e di RUP svolti da un dipendente comunale, il quale richiedeva il pagamento a titolo di compenso incentivante ai sensi dell’art. 18, della L. n. 109/94 (legge applicabile all'epoca dei fatti).
Il Comune negava il pagamento di tale compenso in quanto l’attività professionale svolta dal ricorrente riguardava opere prive di copertura finanziaria.
La Corte di Cassazione ha escluso l'esistenza di un diritto al pagamento del compenso incentivante qualora il finanziamento dell’opera - cui si riferisce la prestazione professionale - non esista e ha affermato che, tuttavia, non per questo svanisce il diritto del lavoratore al pagamento delle prestazioni aggiuntive comunque svolte.
Di conseguenza, i vincoli di spesa non possono essere valorizzati al fine di escludere il pagamento per le prestazioni svolte dai dipendenti.
In particolare, con la citata ordinanza, la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di pubblico impiego privatizzato, l'affidamento di incarichi di progettazione, direzione lavori e simili a lavoratori dipendenti della stazione appaltante in mancanza di stanziamenti previsti per la realizzazione dell'opera cui gli incarichi si riferiscono, se pure impedisce il sorgere del diritto al compenso incentivante ai sensi della L. n. 109 del 1994, art. 18 (nel testo all'epoca vigente), tuttavia non fa venire meno il diritto del lavoratore alla retribuzione aggiuntiva per lo svolgimento di attività oltre il debito orario di tali prestazioni di lavoro”.
Appare, inoltre, rilevante la portata interpretativa della deliberazione n. 187/2023 resa dalla Corte dei Conti, Sezione Lombardia, in sede consultiva.
In particolare, con tale deliberazione, la Corte dei Conti ha chiarito tre punti fondamentali in materia di incentivi per le funzioni tecniche.
Anzitutto, ad avviso della Corte, sulla scorta della Relazione illustrativa del Consiglio di Stato, il comma 1 dell’art. 45 del nuovo Codice appalti, nel prevede che gli oneri per gli incentivi “sono a carico degli stanziamenti previsti per le singole procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture”, estende la possibilità di erogare l’incentivo per le funzioni tecniche ai dipendenti in tutte le procedure di gara e non solo nell’ipotesi di appalto.
Di conseguenza, tra i soggetti che attivano le procedure di affidamento e che destinano le risorse per finanziare le funzioni tecniche, sono ricompresi anche gli “enti concedenti”.
Il risultato, pertanto, è la possibilità di applicare l’art. 45 del nuovo Codice appalti anche ai contratti di concessione.
In particolare, con pronuncia qui in commento, la Sezione Lombardia della Corte di Conti ha chiarito che la disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche trova applicazione anche al partenariato pubblico-privato, sempre che le attività svolte siano quelle previste dall’allegato I.10 del nuovo Codice (D.lgs. n. 36/2023) e che gli incentivi siano “a carico degli stanziamenti previsti per le singole procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti”, così come previsto dall’art. 45.
Nell’ipotesi di partenariato pubblico privato, il valore sul quale applicare l’aliquota percentuale del 2% da calcolare sull’importo dei lavori, servizi o forniture, sarà dato dal valore della concessione.
Infine, la Sezione Lombardia della Corte dei Conti ha anche fornito una risposta alla questione circa la possibilità di liquidare gli importi per gli incentivi con cadenza periodica, anziché aspettare il termine del contratto e l’approvazione degli atti di contabilità finale dei lavori, dei servizi o delle forniture, fatta salva la ripetizione dell’importo erogato nel caso di allungamento dei tempi o incremento dei costi della commessa pubblica.
La Corte dei Conti ravvisa la possibilità di liquidare con cadenza periodica gli incentivi nella genericità della formulazione del comma 3 dell’art. 45 del nuovo Codice, il quale stabilisce, con riferimento ai criteri di riparto delle risorse per le funzioni tecniche svolte, che questi siano stabiliti dalle stazioni appaltanti e dagli enti concedenti, secondo i rispettivi ordinamenti, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del Codice.
Alla luce dei chiarimenti sopra accennati, la nuova disciplina degli incentivi alle funzioni tecniche sembra valorizzare l'autonomia delle amministrazioni, con auspicabili risvolti positivi sulla migliore gestione dei contratti pubblici.
Il Consiglio di Stato si è pronunciato sui margini di intervento migliorativo e di adeguamento alle esigenze della Stazione appaltante nella fase di esercizio del diritto di prelazione da parte del promotore nell'istituto del project financing. Il Collegio ha escluso la legittimità dell’esercizio del diritto di prelazione in assenza di una totale identità tra la proposta dell’aggiudicatario e quella del promotore.
Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla possibilità di limitare il trasferimento all’estero di opere d’arte appartenenti a privati, qualora l’uscita di tali opere dal territorio italiano possa compromettere l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione. Nel caso di specie, il proprietario di un quadro di un famoso pittore tedesco aveva richiesto al Ministero della Cultura il rilascio dell’attestato di libera circolazione ed il Ministero aveva negato il rilascio di tale attestato alla luce di una istruttoria nella quale veniva evidenziata la rarità dell’opera straniera in questione e la forte attinenza di tale opera al territorio italiano. Invero, ai sensi del combinato disposto dell’art. 68 e dell’art. 10 del Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004), l’Amministrazione può negare il rilascio dell’attestato di libera circolazione di opere appartenenti a privati laddove queste presentino un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione. Nel caso di specie, la valutazione svolta dall’Amministrazione ai fini dell’adozione del provvedimento di diniego risultava adeguatamente motivata con riferimento ad una serie di criteri quali la rarità dell’opera, l’altissima qualità dell’opera, il legame dell’opera e del percorso artistico del pittore con il nostro Paese, ecc. A tale valutazione andava aggiunta la considerazione circa l’eccezionale rilevanza del bene ai fini della integrità e della completezza del patrimonio culturale della Nazione (art. 10 del Codice). Pertanto, poiché nella fattispecie ricorrevano entrambe queste circostanze, il Collegio ha ritenuto legittimo il divieto posto dall’Amministrazione sulla esportazione del bene culturale in questione.