Con la sentenza n. 104 del 10 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3-quater, del d.l. n. 158/2012 (c.d. decreto Balduzzi), come convertito nella l. n. 189/2012, e dell’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015, nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa in misura fissa di euro 20.000 per la violazione del su richiamato art. 7, comma 3-quater, del decreto Balduzzi.
L’art. 7, comma 3-quater, del d.l. n. 158/2012 vietava «la messa a disposizione, presso qualsiasi pubblico esercizio, di apparecchiature che, attraverso la connessione telematica, consentano ai clienti di giocare sulle piattaforme di gioco messe a disposizione dai concessionari on-line, da soggetti autorizzati all’esercizio dei giochi a distanza, ovvero da soggetti privi di qualsiasi titolo concessorio o autorizzatorio rilasciato dalle competenti autorità».
La disposizione in esame, inserita nel contesto delle misure di prevenzione della ludopatia, mirava a impedire l’uso, all’interno di pubblici esercizi, di qualsiasi apparecchiatura che consentisse il gioco online, a prescindere dalla liceità o meno delle piattaforme di gioco. L’intento dichiarato del legislatore era quello di limitare le occasioni di gioco per finalità di tutela della salute pubblica, in particolare contrastando la dipendenza da gioco d’azzardo.
La questione di costituzionalità del ridetto art. 7, comma 3-quater, del d.l. n. 158/2012 è stata sollevata con ordinanze del 24 luglio 2024 (rispettivamente iscritte ai nn. 169 e 171 reg. ord. del 2024) dalla Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda civile, per violazione degli artt. 3, 25, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Con le su richiamate ordinanze, la Corte di Cassazione ha posto all’attenzione della Consulta la questione dell’irragionevolezza (art. 3 Cost.) del divieto previsto dalla norma in esame, che va a colpire la mera “messa a disposizione” di PC o tablet, anche a prescindere dall’effettivo collegamento a siti di gioco online, nonché il problema della scarsa determinatezza della norma in discorso, che vieta genericamente agli esercenti di pubblici esercizi la “messa a disposizione” di “apparecchiature” che consentano ai clienti il collegamento a siti di gioco, così ponendo a carico del gestore un onere di vigilanza non previsto dalla legge.
Tale formulazione, infatti, appare vaga e ambigua, in quanto non chiarisce:
i) quale tipologia di apparecchiature rientri nel divieto (solo “totem” o anche PC, tablet, ecc.);
ii) quali condotte integrino la responsabilità dell’esercente (ad es., obbligo di vigilanza, filtro dei siti);
iii) se il semplice fatto oggettivo della disponibilità dell’apparecchio sia sufficiente a configurare l’illecito.
Secondo la Corte di Cassazione, siffatta indeterminatezza normativa rischia di compromettere il principio di legalità in materia sanzionatoria (art. 25, comma 2, Cost.), che impone una tipizzazione chiara e precisa della fattispecie e del relativo trattamento sanzionatorio. Inoltre, la norma appare in contrasto con il principio di colpevolezza, punendo il solo oggettivo comportamento consistente nella mera messa a disposizione delle apparecchiature.
Peraltro, sebbene la norma in esame miri legittimamente alla tutela della salute pubblica, e in particolare al contrasto della ludopatia, che costituisce un interesse costituzionalmente protetto, tale interesse deve essere ragionevolmente bilanciato con altri diritti fondamentali, come la libertà d’impresa e il diritto alla privacy (che risulterebbe compromesso da un presunto obbligo di controllo delle attività telematiche dei clienti da parte dell’esercente).
Afferma, infatti, in proposito, la Suprema Corte di legittimità che «la norma non sfugge ai dubbi di costituzionalità, non essendo descritta in alcun modo la condotta omissiva rilevante, lasciando spazio ad un margine di discrezionalità dell’amministrazione del tutto contrastante con i principi costituzionali in materia di potere sanzionatorio della P.A., quale il principio di legalità di cui la riserva di legge costituisce espressione. In conclusione, dovendosi escludere la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione, la norma appare incostituzionale sia in termini di determinatezza sia in termini di ragionevolezza, dovendo, il diritto alla salute che la sottende … subire un ragionevole bilanciamento con il diritto di libertà di impresa nonché con il diritto alla privacy degli utenti. Infine, la norma appare incostituzionale anche in termini di colpevolezza, punendo il solo oggettivo comportamento consistente nella mera messa a disposizione del mezzo stesso».
In particolare, sotto il profilo specifico del rispetto del diritto alla privacy, la Corte di Cassazione rileva che «interpretare la disposizione nel senso di ritenere sussistente nei confronti dell’esercente un obbligo di vigilanza avendo riguardo ai siti ai quali i singoli clienti si collegano all’interno dell’esercizio, d’altronde, si porrebbe in evidente contrasto con la tutela dei dati personali. Lo stesso Garante Privacy ha precisato che, a seguito dell’abrogazione del decreto Pisanu (D.L. n. 144/2005), che imponeva l’obbligo di registrazione con identificazione degli utenti a carico degli esercenti dei c.d. internet point, non solo l’identificazione dell’utente si poneva in contrasto con il diritto alla privacy, ma anche ogni genere di attività di controllo o monitoraggio dell’esercente sugli indirizzi Internet ai quali gli utenti si collegavano. Il compito di richiedere (per il conseguente utilizzo) i dati personali degli avventori, come la registrazione dei loro documenti, è stata vietata dal Garante della Privacy anche nei pubblici esercizi, come ristoranti e bar, che possono mettere a disposizione dei clienti oltre il wi-fi, anche dispositivi per navigare sul web con richiesta di utilizzo di connettività Internet, ribadendo come i dati personali dei clienti non possano essere utilizzati senza apposito consenso».
L’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015 prevedeva che «in caso di violazione dell’articolo 7, comma 3-quater, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, il titolare dell’esercizio è punito con la sanzione amministrativa di euro 20.000; la stessa sanzione si applica al proprietario dell’apparecchio».
La questione di costituzionalità della norma in discorso è stata ancora sollevata dalla Corte di Cassazione, Sezione Seconda civile, con le già ricordate ordinanze del 24 luglio 2024, nonché dal Tribunale ordinario di Viterbo, con ordinanza del 17 luglio 2024, iscritta al n. 168 reg. ord. del 2024, per violazione degli artt. 3, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Al centro della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015, laddove prevede una sanzione amministrativa pecuniaria in misura fissa (pari a 20.000 euro) in caso di violazione del divieto di messa a disposizione, in pubblici esercizi, di apparecchiature che consentano il collegamento a piattaforme di gioco online (di cui all’art. 7, comma 3-quater, del decreto Balduzzi, su richiamato), si colloca la violazione del principio di proporzionalità. Tale principio, infatti, come già chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 185/2021, deve trovare applicazione anche in ambito amministrativo quando la sanzione abbia natura punitiva: ciò in virtù del fatto che tali sanzioni, sebbene formalmente non penali, presentano natura sostanzialmente afflittiva e incidono su diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, come quelli di proprietà (art. 42 Cost.) e di libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).
Pertanto, la previsione di una sanzione in misura fissa (20.000 euro), a prescindere dalla gravità effettiva della condotta, risulta costituzionalmente censurabile, dal momento che essa non consente una valutazione caso per caso, precludendo al giudice ogni possibilità di graduare e commisurare la risposta sanzionatoria al disvalore concreto dell’illecito. Tale rigidità si pone in contrasto con il dettato dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza e dell’uguaglianza sostanziale.
In proposito, la Corte Suprema di Cassazione – dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale in materia di sanzioni amministrative, secondo cui la sanzione in misura fissa determina la violazione dell’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, poiché detta sanzione «non appare in alcun modo modulabile in relazione all’entità della violazione, da desumersi, ad esempio, dal numero delle apparecchiature messe a disposizione, dall’effettivo collegamento riscontratosi, ovvero dalla gradazione dell’elemento soggettivo dell’esercente in relazione al suo obbligo di vigilanza» – rileva come «nel caso in esame il dubbio di illegittimità costituzionale per violazione dei medesimi parametri non appaia manifestamente infondato. L’entità della sanzione, anche in questo caso determinata nella misura fissa di Euro 20.000, risulta di significativo rilievo, anche rapportandola alla capacità economica modesta di imprese di minime dimensioni, quali sono solitamente i gestori di internet point. In altri termini, qualunque scostamento a prescrizioni viene punita con la medesima sanzione pecuniaria fissa di Euro 20.000. Ne deriva che, anche in questo caso, come già affermato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 185/2021 citata, “la fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti” e “la reazione sanzionatoria (può) risultare manifestamente sproporzionata per eccesso rispetto al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma”».
Partendo dal presupposto che la disposizione di cui all’art. 7, comma 3-quater, del decreto Balduzzi fa generico riferimento ad apparecchiature che, attraverso la connessione telematica, consentano ai clienti di accedere sia a piattaforme di gioco legale, poiché gestite «da soggetti autorizzati all’esercizio dei giochi a distanza», sia a piattaforme di gioco illegale, in quanto gestite «da soggetti privi di qualsiasi titolo concessorio o autorizzatorio», la Consulta ha rilevato come la norma in esame violi il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., poiché «essa accomuna, nella medesima valutazione di illiceità, condotte ampiamente diversificate sul piano dell’offesa all’interesse giuridico protetto», vietando la «messa a disposizione di apparecchiature che consentono l’accesso al gioco sia legale che illegale» e colpendo «allo stesso modo sia la destinazione occasionale delle apparecchiature al gioco, sia quella esclusiva e permanente».
A fondamento della pronuncia di incostituzionalità della norma in discorso, la Corte costituzionale ha anche richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, secondo cui gli Stati membri, pur potendo limitare l’offerta di giochi d’azzardo per motivi di interesse pubblico, devono farlo in modo coerente, sistematico e nel rispetto del principio di proporzionalità. In questo caso, secondo la Consulta, la misura è apparsa inefficace rispetto agli obiettivi dichiarati di tutelare il diritto alla salute e di combattere la criminalità connessa al gioco d’azzardo (dato che l’offerta di gioco online resta comunque «capillare e vastissima, anche attraverso canali di accesso diversi da quelli contemplati dalla disposizione in esame») ed eccessivamente lesiva di altri interessi contrapposti, come quello della libertà di impresa.
La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 7, comma 3-quater, del d.l. n. 158/2012 ha travolto anche la sanzione amministrativa di 20.000 euro prevista per la sua violazione dall’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015, parimenti dichiarato incostituzionale.
Rimangono invece in vigore le sanzioni già previste per chi offre giochi con vincita in denaro in modo illecito.
La Consulta ha infine rimesso al legislatore il compito di individuare misure efficaci e bilanciate per la tutela della salute e il contrasto della ludopatia, senza eccedere nella limitazione di altri diritti fondamentali, come il diritto di libertà di impresa e il diritto alla riservatezza degli utenti.
La sentenza della Corte costituzionale qui in commento potrà avere effetti particolarmente rilevanti per gli esercenti di pubblici esercizi che abbiano già ricevuto la sanzione di 20.000 euro in discorso e che l’abbiano già pagata, anche tramite rateizzazione.
Infatti, la pronuncia della Consulta ha fatto perdere efficacia alle norme dichiarate incostituzionali dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Ne deriva che l’eventuale pagamento della sanzione dichiarata costituzionalmente illegittima configura un indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., per la cui ripetizione il gestore ha diritto di agire nell’ordinario termine di prescrizione decennale.
Infatti, benché la declaratoria di illegittimità costituzionale non spieghi effetto rispetto ai rapporti esauriti, la Corte di Cassazione ha chiarito che il pagamento «non è fatto giuridico di per sé idoneo a rilevare come causa di esaurimento del rapporto, in quanto l’effetto estintivo del pagamento … eseguito in base a norma dichiarata incostituzionale cessa con la dichiarazione di incostituzionalità, sicché il creditore che non ha ricevuto il pagamento ha diritto di pretenderlo, ed il debitore che ha pagato ha diritto di ripetere il pagamento divenuto indebito da chi lo ha ricevuto» (cfr. Corte Cass. Sez. III, Sentenza n. 15431 del 10/08/2004; id. Sez. III, Sentenza n. 14601 del 12/07/2005; id. Sez. III, Sentenza n. 1693 del 07/02/2012; id. Sez. III, Sentenza n. 24273 del 16/10/2017).
Resta, tuttavia, il limite dei rapporti esauriti in quanto coperti da giudicato, non potendosi applicare alla sanzione di cui all’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015 il principio, affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 68/2021 (sulla scorta dei c.d. “criteri Engel” elaborati dalla giurisprudenza della CEDU), secondo cui «va escluso – come per le sanzioni penali – che taluno debba continuare a scontare una sanzione amministrativa “punitiva” inflittagli in base a una norma dichiarata costituzionalmente illegittima. In tal caso, il principio di legalità costituzionale della pena, cui si riconnette la norma censurata, come interpretata dal diritto vivente, non incontra il limite del giudicato, poiché, come per le sanzioni penali, l’esigenza che la sanzione amministrativa a connotazione punitiva risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato».
Non sembra, infatti, che alla sanzione amministrativa di 20.000 euro prevista dall’art. 1, comma 923, della l. n. 208/2015 possa attribuirsi carattere “punitivo”, tale da qualificarla come sanzione sostanzialmente penale.
La Corte dei conti, sez. giur. reg. Campania, con ordinanza del 16 novembre 2023 (dep.18 dicembre 2023), n. 228, ha rinviato alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale del decreto semplificazioni 2020, nella parte in cui ha escluso la responsabilità erariale per i danni cagionati da condotte attive gravemente colpose. Inparticolare, è stato chiesto alla Consulta di valutare la compatibilità dell’art.21 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 con i principi di buon andamento (art. 97Cost.), responsabilità dei funzionari per i danni cagionati allo Statonell’esercizio delle loro funzioni (art. 28 Cost.), giurisdizione della Corte dei conti sui medesimi fatti (art. 103 Cost.), efficienza (art. 97 Cost.),equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.), eguaglianza (art. 3 Cost.)
Livia Lorenzoni ha partecipato al comitato scientifico del convegno su Politica e amministrazione: etica, managerialità e responsabilità, presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi Roma Tre ed è intervenuta con una relazione in tema di responsabilità amministrativa e burocrazia difensiva.