La vicenda risale alle previsioni del DPR 8 aprile 1999 n. 169, mediante il quale è stato adottato il regolamento recante norme per il riordino della materia delle scommesse sulle corse dei cavalli.
Tali disposizioni (poi riversate nella convenzione tipo che disciplinava il rapporto concessorio avente ad oggetto l’esercizio delle scommesse ippiche al totalizzatore nazionale e a quota fissa) stabilivano – tra l’altro – l’obbligo, per i concessionari, di versare all’erario una quota di prelievo “minimo garantito”, perequato all’ammontare medio della raccolta nell’ultimo triennio; livello che, anche se non raggiunto, doveva necessariamente essere integrato dal concessionario con un esborso aggiuntivo.
In sostanza, i concessionari assicuravano all’amministrazione una soglia minima di remuneratività, sul presupposto che il regolatore garantisse loro l’esclusività della raccolta.
Tuttavia, l’attività dei concessionari è stata costantemente in perdita, anche a causa della diffusa rete di raccolta “parallela” (basata su canali illeciti o irregolari) a causa della quale le Agenzie di scommesse hanno accumulato ingenti debiti nei confronti delle amministrazioni concedenti, tanto che è intervenuto il legislatore con l’art. 8 del DL n. 452/2001, il quale ha ridefinito le condizioni economiche delle concessioni per il servizio di raccolta delle scommesse sia ippiche che sportive.
In attuazione del citato art. 8 del DL n. 452/2001 è stato così emanato il decreto interdirigenziale 6 giugno 2002, che ha ridefinito le condizioni economiche contrattuali e gli obblighi di pagamento dei concessionari, consentendo alle concessionarie di spalmare il debito maturato alla data del 2002 mediante appositi piani di rientro, contestualmente prevedendo la proroga del periodo concessorio sino all’anno 2011, termine che coincideva con il termine finale della rateizzazione.
Il sinallagma del rapporto concessorio per le Agenzie “storiche” veniva ulteriormente alterato dall’introduzione dell’art. 38 del DL n. 223/2006 "Decreto Bersani” con cui si realizzava l’apertura del mercato e la liberalizzazione del settore, mettendo a bando numerose nuove concessioni sprovviste dell’obbligo di versamento dei “minimi garantiti”. La citata disposizione imponeva all’amministrazione di adottare delle “modalità di salvaguardia” – invero mai attuate – con lo specifico fine di tutelare i concessionari preesistenti (sulla questione è anche intervenuto nuovamente il legislatore con l’art. 10, comma 5, lett. b), D.L. n. 16/2012, conv. con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44 e, finanche, la Corte costituzionale con sentenza n. 275 del 2013).
In tale contesto è, inoltre, accaduto che, nel 2009, le concessioni ippiche "storiche” sono state revocate ai sensi dell’art. 4 bis del DL n. 58/08 in dichiarata ottemperanza alla pronuncia della CGE 13 settembre 2007.
L’Amministrazione ha, quindi, ritenuto, con le note impugnate, di richiedere ai concessionari il pagamento dei debiti maturati al 2002, con decadenza dal beneficio del termine previamente accordato.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5514 del 1° luglio 2022, in una controversia patrocinata dallo Studio, ha:
(i) confermato il contenuto novativo degli atti integrativi del 2003 «determinando l’estinzione di ogni ulteriore obbligazione collegata all’assetto previgente»;
(ii) condiviso l’assunto della sentenza impugnata con riferimento a «la tesi per cui la revoca delle concessioni ippiche storiche, che evidentemente, sono rimaste valide ed efficaci nella parte non innovata, ha rappresentato un evento sopravvenuto ed estraneo alla sfera di controllo delle parti che ha inciso sulla causa della nuova convenzione, impedendone il normale funzionamento».
Tuttavia, motivando diversamente rispetto al TAR, ha qualificato:
(i) gli accordi del 2003 alla stregua di atti transattivi, e
(ii) la domanda di annullamento formulata con il ricorso come una richiesta di scioglimento di tali contratti in forza dell’art. 1467 c.c.
L’aspetto peculiare della decisione consiste nell’affermazione per cui «l’annullamento delle note impugnate con il ricorso introduttivo va sì confermato ma limitatamente alla pretesa dell’amministrazione di ottenere tout court il pagamento dell’intero debito residuo, per di più in un’unica soluzione, dovendo quest’ultima, quale parte creditrice, offrire la reductio ad equitatem del rapporto sinallagmatico, onde evitare di perdere l’intero credito. Una pronuncia di risoluzione dell’accordo transattivo per eccessiva onerosità sopravvenuta, infatti, non può essere allo stato assunta dovendosi consentire all’amministrazione creditrice di esercitare la menzionata facoltà di cui all’art. 1467, comma 3,c.c.: invero, quantunque la prosecuzione del rapporto, nei termini formali di cui agli accordi del 2003, non sia tecnicamente più possibile stante l’intervenuta revoca delle concessioni, ciò non impedisce che il rapporto debito/credito venga regolato da una nuova transazione».
In sostanza, il Collegio ha sopperito all’inerzia dell’amministrazione – che non ha mai invocato l’applicazione dell’art. 1467, comma 3 – di fatto consentendole di proporre ai concessionari una nuova modalità di corresponsione dei ratei del debito riconosciuto, e ciò pur a fronte del venir meno della prosecuzione del rapporto che avrebbe consentito loro di incassare quanto necessario ad adempiere l’obbligazione di pagamento.
L’approdo argomentativo appare distonico rispetto alle opposte conclusioni a cui era giunto, in un caso simile, il G.O., secondo cui, in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, «La riduzione non può essere pretesa in via di azione dal gravato né tanto meno applicata d'ufficio dal giudice. La parte gravata non ha, infatti, il diritto di imporre a controparte una riduzione ad equità per il principio che esclude la modificabilità unilaterale del contratto: può solo proporla alla controparte e la riduzione avrà corso solo se accettata e quindi bilateralmente concordata con contratto modificativo del precedente» (Tribunale sez. VI - Roma, 15/02/2022, n. 2476).
Non è chiaro, a questo punto, se il sindacato giurisdizionale possa estendersi anche alla ragionevolezza della proposta di riduzione ad equità, o alla possibilità di rifiuto secco da parte dei concessionari che, ovviamente, non hanno nessun interesse a mantenere l’efficacia di un rapporto esaurito e che per loro rappresenta, ormai, unicamente la fonte di un’obbligazione di pagamento dal contenuto indefinito. Peraltro, ciò impedisce la cancellazione delle società, ormai inattive, dal Registro delle imprese poiché a ciò osta la previsione dell’art. 2495 c.c., che esporrebbe i liquidatori a responsabilità personali.
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